Charles d'Orléans in England (1415–1440). Edited by Mary-Jo Arn, Cambridge, D. S. Brewer, 2000, pp. x, 231.

Mary-Jo Arn, Introduction, pp. 1-8. In queste pagine introduttive la Studiosa presenta i lavori raccolti in questo volume segnalando il loro carattere innovativo e, nel contempo, indica nuovi percorsi di ricerca.

Michael K. Jones, «Gardez mon corps, sauvez ma terre» - Immunity from War and the Lands of a Captive Knight: The Siege of Orléans (1428-29) Revisited, pp. 9-26. Interessantissimo contributo nel quale sono passati in rassegna i vari tentativi messi in essere da Charles d'Orléans per ritrovare la libertà. Durante la sua lunga prigionia il Principe Poeta fu tutt'altro che inattivo. Progettò di vendere le sue tappezzerie e i suoi libri, di cedere Asti al duca di Savoia in cambio di 200,000 scudi d'oro necessari per il proprio riscatto, trattò pure con Jean d'Armagnac l'abbandono di Charles VII (forse non in buona fede e sempre salvando l'"onore"; come, non si sa), ecc. Tutti questi tentativi furono vani perché Enrico V aveva stabilito che il duca avrebbe ritrovato la libertà solo quando tutti i punti sanciti nel trattato di Troyes fossero stati realizzati.

Come il duca di Borbone aveva già abbandonato il suo sovrano, nel 1521, perché non l'aiutava a liberarsi, così anche Charles d'Orléans accettò, nel 1427, l'«abstinence de guerre» per le stesse ragioni. Tuttavia i responsabili della politica inglese, temendo un accordo fra Orleanisti e Borgognoni, spedirono in Francia il conte di Salisbury, che cinse d'assedio Orléans, piazza forte chiave per sferrare l'attacco finale al «roi de Bourges», a dispetto dell'accordo d'«abstinence». Salisbury venne ucciso sotto le mura di questa città e l'assedio si protrasse a lungo. Quando intervenne Giovanna d'Arco, che era all'oscuro di tutte queste pratiche, era troppo tardi perché gli Inglesi si accorgessero che, nell'aver attaccato proprio Orléans, avevano commesso uno sbaglio madornale che impedì loro di rendersi padroni della Francia.

William Askins, The Brothers and tbeir Keepers, pp. 27-45. Anche questo lavoro sui venticinque anni trascorsi da Charles in Inghilterra è un contributo rilevante per le informazioni che veicola, non solo sul Principe Poeta, ma anche sul fratello. Modestamente lo studioso afferma che le ricerche in questo campo sono appena iniziate, ma, soggiungo io, sono egregiamente iniziate.

Queste pagine passano in rassegna gli otto guardiani che ebbero in consegna successivamente il duca d'Orléans, dopo un suo primo soggiorno nella torre di Londra. Quanto interessa maggiormente in questo lavoro è lo schizzo fornito sulle personalità di questi «keepers», sull'ambiente, intellettuale o no, che attorno ad esse gravitava e sull'acquisto o la copiatura di manoscritti effettuata dai due fratelli. Troppi veramente sono i nomi che si dovrebbero citare e che una breve nota non può contenere. Ricorderò quindi solo che il più lungo soggiorno del duca (sette anni) avvenne presso Sir Thomas Cumberworth, estimatore di Chaucer, personaggio pio, collezionista di curiose reliquie ed in contatto con molte istituzioni religiose del Lincolnshire e di Londra. Accompagnato dal suo guardiano, il principe poeta poté prendere in prestito dai francescani della capitale un manoscritto delle poesie di John of Hove(n)denen che imitò e prestò al bibliotecario della stessa istituzione Thomas Winchesley il Testamentum Peregrini di Gerson che questi imitò e dedicò al duca.

Sorvoliamo sullo sportivo John Cornwall, (batté a tennis Louis d'Orléans guadagnando 3 000 franchi), legato all'ambiente mercantile londinese che fu l'unico degli ex guardiani di Charles che assistette alle sue nozze con Marie de Clèves. Durante il soggiorno che il duca fece presso il conte di Suffolk, William de la Pole (agosto 1432-maggio 1436) venne in contatto con John Lydgate del quale la moglie del conte fu la protettrice. Il suo penultimo guardiano fu Reynold Cobham amico di Stephen Scrope. L'ultimo, il primo lord di Stourton, aveva sposato la figlia di John Wadham ex collega di Geofrrey Chaucer.

In queste pagine, si accenna sovente anche a Jean d'Angoulême ed ai manoscritti che copiò o fece copiare o acquistò, come pure si accenna al soggiorno inglese di Poggio Bracciolini. Contributo fondamentale da tener ben presente perché apre la via allo studio dell'interscambio fra l'ambiente culturale inglese ed i due Orléans ed altri signori francesi fatti prigionieri ad Azincourt.

 Gilbert Ouy, Charles d'Orléans and his Brother Jean d'Angoulême in England: What their Manu-scripts have to Tell, pp. 47-60. In questo articolo, G. Ouy riassume il risultato delle sue ricerche sui due fratelli durante la loro prigionia in Inghilterra e sui manoscritti da loro o per loro esemplati e comunque posseduti. Gran parte del lavoro concerne le vicende che portarono lo Studioso a ritrovare il Canticum Amoris di Charles d'Orléans (definito un «pastiche» di due opere di John of Hove(n)dene), il Pastorium carmen e la Deploratio super civitatem [...] di Gerson. Copia di queste due ultime opere sareb­bero giunte ai due prigionieri tramite il fratello del Cancelliere dell'Università di Parigi o a francescani interessati alle opere di Gerson come Thomas Winchesley.

Mary-Jo Arn; Two Manuscripts, One Mind: Charles d'Orléans and the Production of Manuscripts in Two Languages (Paris, BN MS fr. 25458 and London BL MS Harley 682), pp. 61-78. Considerazioni sulle somiglianze e divergenze fra i due manoscritti menzionati nel titolo. Pare certo che Charles d'Orléans abbia sorvegliato la confezione del ms. O (BnF, fr. 25458) e poi l'abbia trasmesso ad uno scriba inglese per la copa di H (Harley 682). Quest'ultimo rimase incompiuto nella forma ma completo nella sostanza, mentre quello contenente i testi francesi venne riportato dal Duca in patria e fu aumentato come ben noto. Sull'autore della versione inglese delle poesie di Charles d'Orléans i pareri divergono.

Claudio Galderisi, Charles d'Orléans et l'«autre» langue: ce «français» que son «cuer amer doit», pp. 79-87. Quale è "l'altra lingua" per il poeta? Quella poetica, appunto, fusa nel crogiolo della «chambre de pensee»? Forse, certo non l'inglese che gli fu compagna durante il lungo esilio. Per trattare questo tema bisognerebbe però risolvere lo spinosissimo problema della paternità delle poesie conservate nel ms. Harley 682.

Poesia passatempo o meditazione sul tempo passato, filtrato attraverso uno sguardo ad un tempo retrospettivo ed autoscopico. Il dire del Principe Poeta trova il suo corso solo maneggiando la lingua materna perché - ma anche qui ci sarebbe da discutere - non si può essere poeti che in una sola lingua. Petrarca protesterebbe e con lui molti altri fra cui il Duca stesso che fece uso episodicamente - e in modo poco destro, è vero - anche di altri idiomi, come ricorda il contributo che segue.

John Fox, Glanures, pp. 89-108. J. Fox è aduso a cimentarsi con testi difficili felicemente. Queste spigolature ce ne offrono un'ulteriore prova. Si inizia con tre poesie "maccheroniche": "che gnugnu!" è tutt'ora vivo in Lombardia con un senso che però non conviene del tutto con il contesto del rondeau (CLXX) in cui è collocato. «Oblesse» (garantire per qualcuno), presente in una poesia inglese è un verbo scozzese che il Duca avrebbe potuto imparare da Giacomo I° prigioniero pure lui a Londra, donde l'autenticità di questi testi. Segue l'analisi del disperante rondeau CCLVI che resta enigmatico malgrado l'eco che ad esso fanno Benoît Damien e Villebresme. Ottima l'annotazione sul rondeau XLVII. Se si omette il secondo verso del ritornello alla fine dell'ultima strofa, la composizione acquisisce un senso positivo. Infine, un'agile descrizione del ms. Royal 16. F. ii, sul quale torna anche il successivo contributo di J. Backhouse.

Rouben C. Cholakian, Le monde vivant, pp. 109-21. Dopo la liberazione Charles ha mutato la sua poetica? La risposta è negativa. Come la maniera cortese era pretesto all'introspezione durante la prigionia, così la descrizione del mondo esterno divenne metafora della sua interiorità. Anche dopo il ritorno in patria la percenzione che Charles d'Orléans eboe del mondo esterno restò soggettiva.

A. C. Spearing, Dreams in «The Kingis Quair» and the Duke's Book, pp. 123-44. Per seguire l'Autore bisogna essere del parere che le poesie inglesi del ms. Harley 682 siano della mano di Charles d'Orléans: «one of the most gifted and fascinating English poets of his time». Ritrattando una sua precedente posizione critica, A. C. Spearing ammette che Giacomo I non possa più essere considerato un maldestro imitatore di Chaucer. Il re ed il duca hanno trattato entrambi la tematica del sogno alla maniera di Boezio e di Chaucer, ma trasformandola, poiché in entrambi vi è una stretta correlazione fra allegoria e vicenda personale.

Derek Pearsall, The Literary Milieu of Charles of Orléans and the Duke of Suffolk, and the Authorship of the Fairfax Sequence, pp. 145-56. Le ballate conservate nei ff. 318r - 329r. del ms. Fairfax 16 della Bodleian Library sono stati attribuiti a William de la Pole, duca di Suffolk e custode di Charles d'Orléans dal 1432 al 1436. Dopo di aver schizzata rapidamente la carriera militare, politica e diplomatica del duca di Suffolk, lo Studioso passa in rassegna le poesie che gli sono state attribuite. A suo parere, nessun indizio certo permette di ascrivere a William de la Pole le poesie inglesi attribuitegli da H. N. MacCracken (An English Friend of Charles d'Orléans, "PMLA", 26, 1911, pp. 142-80), né più né meno che le cinque poesie francesi che John Shirley, il copista del ms. R. 3. 20 del Trinity College di Cambridge, affermava essere sue.

Janet Backhouse, Charles d'Orléans Illuminated, pp. 157-63. Ordinato, verso la fine degli anni settanta, da alcuni nobili bibliofili inglesi di stanza a Calais, il ms. Royal 16 F. ii della British Library e portato in Inghilterra probabilmente da Quintin Poulet bibliotecario del nuovo sovrano inglese Enrico VII, è opera di scribi e miniaturisti fiamminghi. L'esame della decorazione, che illustra soprattutto i testi di Charles d'Orléans, rivela che essi rice­vettero l'ordine di confezionare questo codice per l'ultimo re della dinastia York.

Jean-Claude Mühlethaler, Charles d'Orléans, une prison en porte-à-faux. Cotexte courtois et ancrage référentiel: les ballades de la captivité dans l'édition d'Antoine Vérard (1509), pp. 165-82. Non pochi furono i poeti che fecero l'esperienza della prigionia durante il secolo XV; ma come distinguere, nei loro scritti, la parte che compete al vissuto da quella che sfuma nell'allegoria? J.-Cl. Mühlethaler suggerisce un'inedito percorso di lettura.

Guillaume de Machaut, né Froissait, né Christine de Pizan conobbero la prigione e quindi non possono esserci di guida, per contro La Chasse e Le Depart d'Amours, pubblicati da Vérard nel 1509, possono aiutarci a comprendere, grazie alle esclusioni, quali composizioni poetiche di Charles d'Orléans fossero state sentite come troppo autobiografiche. Da notare che questa antologia non comprende nessuna lirica successiva al ritorno del Duca in Francia.

La scelta che operò l'editore, o chi lo coadiuvò nella compilazione di questa antologia bipartita (La Chasse d'Amours attribuibile forse a Octovien de Saint-Gelais [per l'edizione di M. B. Win, cfr. questi Studi, XXX, 2, 1986, pp. 289-90] e Le Depart d'Amours di Blaise d'Auriol di Tolosa), esclude infatti i testi che hanno un aggancio troppo preciso a fatti e situazioni della vita del poeta, mentre ritiene solo quelli che hanno una portata più generale ed un timbro allegorico.

A. E. B. Coldiron, Translation, Canons, and Cultural Capital: Manuscripts and Reception of Charles d'Orléans English Poetry, pp. 183-214. Interessante contributo sulla fortuna-sfortuna di Charles d'Orléans considerato «the only major poet writing English lyric before what we usually mark as the Renaissance» (p. 185). Prima di tutto si passa in rassegna la ricezione manoscritta della sua opera che fu più che discreta, si segnala l'avversione inglese per la sua personalità ed il suo ruolo politico ea il silenzio della stampa durante i primi secoli di attività. Analogamente a quanto successo in Francia, la sua eclissi fu lunga e bisognerà attendere l'ultima decade del Settecento per vederlo riemergere. Come poeta in lingua inglese, un primo riconoscimento gli venne dalla edizione del Roxburghe Club (1827) che fu il testo di base della critica fino a quella della EETS (1941). Se l'Ottocento l'ha considerato poeta medievale e francese, gli studiosi di area inglese hanno tentato di annetterlo al "canone" della poesia inglese durante il Novecento. Qualche dubbio persiste. In conclusione, Charles d'Orléans resta «unplaced, lost in translation, or slotted uncomfortably in the English canon as the medieval poet he more clearly is in French» (p. 214).

Gianni Mombello

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